domenica 16 febbraio 2014

InferNapoli di Peppe Lanzetta


Non si sente il mare, poi si sente.
La mente è offuscata, il caldo avanza.
L'afa asfissiante della città malata copre i pori e investe le anime dannate che annaspano cercando un po' di refrigerio, un po' di credito, una speranza camuffata da una finanziaria che promette soldi a pensionati fino a novant'anni.
Arranca una terra invasa da rifiuti che non trovano posto, disoccupati pure loro, senza nessuno disposti ad assumerli. Eppure c'è tanto jazz, c'è tanta carne, tanto fuoco. Giovani chitarristi suanano B.B.king, giovani pittori coprono le tele con graffiti dell'anima, dai club più disparati si levano alte le note di chitarre a fiato, di percussioni figlie di un' Africa a portata di mano, algerini e marocchini già tunisini offrono i loro djambè fra una banana frozen e un po' di fumo che sembra cioccolato.
Non si sente il mare, poi si sente.

La città malata vuole ossigeno per i suoi malmessi polmoni.

E invece sono sigarette di ogni marca. E tabacco da rollare nelle cartine per risparmiare. E tosse e catarro che escono dal Pallonetto di Santa Lucia ed entrano sulle Chianche, la dove la piazza della Carità sale per i Quartieri e si perde nei televisori al plasma, nel canto di Maria Nazionale, negli amori proibiti fra affiliati di clan rivali, nelle donne dal tuppo nero che scendono al Bingo di via dei Fiorentini e si giocano pure le mutande e quando non c'è più niente vanno nei cessi in cerca di un pompino salvifico. Per continuare a giocare, per continuare a sperare. Per non tornare a casa a mani vuote, stessa scena, stessa sera, sera dopo sera, televisone dopo televisione, quiz dopo quiz, grande fratello su grande fratello, isole, talpe, naufraghi, sceneggiate postmoderne fatte per ingannare chi già è stato ingannato dalla vita, dal tempo, dalle promesse angioine, normanne, francesi, arabe , da re, vicerè, capipopolo, lazzari, lazzaroni, sanfedisti, gesuiti, incantatori di serpenti che ogni volta hanno cambiato la storia anche se le trama era sempre la stessa.
Nel tuppo nero di donna Cuncetta non c'è posto per promesse, per voti da chiedere, per posti da dare a figli o nipoti, per carrambate, per Filumene Marturaro, per donne Amalie, per le Napoli milionarie, per i Fantasmi, per i Cupiello..
Nel tuppo nero di donna Cuncetta c'è un refolo di vento che viene da Salvador de Bahia, che passa x Marsiglia, dopo essersi fermato allo Sri Lanka, e poi ancora l'eco delle Ramblas di Barcellona, dei suoi musici, i suoi pittori, le sue puttane, i corpi mozzafiato delle colombiane e delle venezuelane che spompinano bavosi signori in vecchie Peugeot  o in squallidi appartamentini.
Parla indiano il tuppo di donna Cuncetta, parla pakistano, parla filippino eppure parla napoletano, come fosse sporcato, come fosse macchiato, come un sangue, un mestruo, che intacca il candore di un indumento fresco, pulito, che sa di biancheria lavata, messa al sole.
Lì, nel Decumano maggiore, tra San Lorenzo e San Gaetano, Santa Chiara e il Gesù nuovo..quanti Santi ci sono nel tuppo di donna Cuncetta e quanti diavoli per il suo corpo famelico.
Si sente il mare,eppure non si sente.. 






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